Ordinanza Tribunale Torino 9 settembre 2016, n. 22390

TRIBUNALE ORDINARIO di TORINO

Prima Sezione Civile

Il Tribunale in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati:

dott. Umberto Scotti                                                                             Presidente

dott.sa Silvia Orlando                                                                           Giudice

dott. Enrico Astuni                                                                                 Giudice rel. est.

nel procedimento per reclamo iscritto al n. r.g. 22390/2016 promosso da:

MINISTERO DELL’UNIVERSITÀ, DELL’ISTRUZIONE E DELLA RICERCA (C.F. 80089530010) e Istituto scolastico comprensivo GAETANO SALVEMINI, di Torino rappresentati e difesi dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Torino, con sede in CORSO STATI UNITI 45 TORINO

RECLAMANTI

contro

(omissis) in qualità di genitore esercente la potestà sulla figlia minore (omissis), rappresentato e difeso per procura in atti dagli avv. Riccardo Vecchione e Giorgio Fabrizio Enrico Vecchione, con studio in C.SO VITTORIO EMANUELE II, 82 TORINO

RECLAMATO

Ha emesso la seguente

ORDINANZA

Il Collegio, sciogliendo la riserva assunta all’udienza del 9.9.2016, osserva quanto segue.

Il ricorrente, oggi reclamato, (OMISSIS), genitore esercente la potestà sulla figlia minore (omissis), iscritta all’Istituto scolastico comprensivo “Gaetano Salvemini”, ha chiesto al Tribunale di Torino, con ricorso di urgenza ai sensi dell’art. 700 c.p.c., di accertare il suo diritto di scegliere per la propria figlia tra il servizio di refezione scolastica e il pasto domestico da consumarsi a scuola, nell’orario destinato alla refezione e di ordinare ai convenuti “di consentire alla ricorrente … di dotare la propria figlia di un pasto domestico preparato a casa, da consumarsi nel refettorio scolastico, o previa dimostrazione dell’impossibilità giuridica, presso altro locale idoneo destinato alla refezione, a partire dal primo giorno di scuola e di attivazione del servizio di refezione comunale ed in concomitanza a questo”.

A tal fine ha dedotto:

– che la Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1049 del 21 giugno 2016 (resa nel giudizio d’appello proposto da n. 58 genitori di altrettanti studenti di scuole elementari e medie di Torino), ha accertato “il diritto degli appellanti di scegliere per i propri figli tra la refezione scolastica ed il pasto domestico da consumarsi nell’ambito delle singole scuole e nell’orario destinato alla refezione”;

– che alcune amministrazioni comunali e istituti scolastici hanno negato l’esistenza di analogo diritto di scelta (fra refezione scolastica e pasto domestico da consumare a scuola) per coloro che non avevano preso parte al giudizio di cui sopra;

– che tale posizione lede diritti fondamentali del ricorrente (allo studio, al lavoro, alla libertà delle scelte alimentari, alla uguaglianza), riconosciuti da norme di rango costituzionale, diritti che sono stati accertati dalla Corte d’Appello per le parti di quel processo, ma che sussistono ugualmente anche per coloro che non vi hanno partecipato;

– che questi diritti rischiano di essere pregiudicati nel tempo occorrente per il loro accertamento giudiziale, poiché la facoltà di scelta tra refezione scolastica e pasto domestico da consumare a scuola non potrà concretamente essere esercitata nel prossimo anno scolastico, di imminente inizio. Il giudice ha accolto parzialmente il ricorso con ordinanza 13.8.2016, dichiarando il diritto del ricorrente di scegliere per il proprio figlio tra la refezione scolastica e il pasto preparato a casa da consumare presso la scuola nell’orario destinato alla refezione e rigettando la domanda avente a oggetto la determinazione delle concrete modalità di esercizio del diritto, in quanto rimesse all’autonomia organizzativa e discrezionalità dei singoli istituti scolastici. Ha altresì condannato alle spese le resistenti.

Le Amministrazioni reclamanti (MIUR e Istituto Salvemini) hanno tempestivamente proposto reclamo, chiedendo nel merito la riforma integrale dell’ordinanza e contestando la mancata compensazione delle spese di lite. Nel merito, esse hanno contestato l’esistenza del fumus boni juris, deducendo che la normativa vigente: non obbliga ad avvalersi del servizio di refezione, che è servizio facoltativo a domanda individuale; prevede ampie possibilità di scelta tra il tempo pieno e il tempo definito e, nell’ambito del tempo pieno, consente agli alunni di servirsi della refezione scolastica oppure di uscire accompagnati e previa autorizzazione all’ora di pranzo e fare rientro nel pomeriggio per la ripresa delle lezioni. In ogni caso, la normativa vigente non prevede la possibilità per l’alunno di consumare nei locali della scuola un pasto portato da casa: pretesa questa manifestamente incompatibile con organizzazione e finalità istituzionali dell’attività scolastica.

Il reclamo si diffonde, altresì, sul pericolo che il consumo a scuola di alimenti estranei alla filiera della ditta appaltatrice del servizio di refezione finisca per rendere meno chiare le responsabilità dell’appaltatore e in definitiva per compromettere le garanzie igienico-sanitarie su cui il servizio di refezione scolastica attualmente si fonda.

Le reclamanti hanno infine contestato l’interesse ad agire e l’esistenza di un adeguato pericolo di danno grave e irreparabile, identificando il possibile pregiudizio nel costo annuo della mensa scolastica, senza che possa prospettarsi lesione alcuna, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, di diritti fondamentali.

Il ricorrente, odierno reclamato, costituendosi in giudizio, ha chiesto la conferma dell’ordinanza 13.8.2016.

Il reclamo è infondato.

  1. Oggetto dell’ordinanza reclamata è la dichiarazione del diritto del ricorrente a scegliere, per la propria figlia, tra la refezione scolastica e il pasto domestico da consumare a scuola. Su questo capo di merito l’Avvocatura dello Stato ha proposto reclamo.

L’ordinanza ha invece respinto l’ulteriore pretesa del ricorrente a stabilire le misure organizzative necessarie a consentire l’esercizio di tale diritto (pasto “da consumarsi nel refettorio scolastico, o previa dimostrazione dell’impossibilità giuridica, presso altro locale idoneo destinato alla refezione”), ritenendole – a ragione – rientranti nell’autonomia organizzativa e discrezionalità di ciascun istituto scolastico. Questo capo non ha formato oggetto di reclamo incidentale.

  1. Che il reclamato non possa fondatamente chiedere – trattasi di materia che esula dalla giurisdizione ordinaria – l’attuazione delle modalità organizzative necessarie a consentire la consumazione del pasto domestico all’interno della scuola, non toglie che egli conservi comunque specifico interesse alla pronuncia in via d’urgenza.

Secondo giurisprudenza ormai consolidata (con particolare chiarezza e approfondimento vedi Trib. Bari 9.11.2012 su Jus Explorer; cfr. altresì Trib. Milano 2.7.2013, Trib. Cagliari 30.1.2008 in Riv. giur. sarda 2008, 112; Trib. Rossano 3.4.2007 e altre anteriori), il provvedimento d’urgenza idoneo ad assicurare temporaneamente e in via interinale il diritto minacciato di pregiudizio imminente e irreparabile può consistere anche nel solo mero accertamento dell’esistenza e contenuto del diritto fatto valere.

Indiscusso che tale pronuncia non può attingere alla stabilità del giudicato, né “fare stato” ai sensi dell’art. 2909 c.c.. Evidente tuttavia che la dichiarazione di esistenza e contenuto del diritto rimuove uno stato di incertezza e fornisce alle parti regole di condotta a cui esse devono orientare i propri comportamenti futuri. Tale regolamento del rapporto, seppure provvisorio, vale tra le parti fino a che non sia sostituito da accertamento di merito, a cognizione piena. Il giudizio a cognizione piena, peraltro, riveste oggi carattere meramente eventuale (cfr. art. 669-octies co. 6 c.p.c.), poiché il provvedimento richiesto ha contenuto interamente anticipatorio della pretesa fatta valere.

Vero è dunque che anche la pronuncia dichiarativa, rafforzando il diritto fatto valere, soddisfa la condizione dell’interesse ad agire ex art. 100 c.p.c.. Sempre che si tratti, come in specie, di un diritto minacciato da pregiudizio imminente e irreparabile (cfr. § 4) e che sia dato di assumere, con prognosi ex ante, l’idoneità della pronuncia a evitare quel pregiudizio: anche, se del caso, per il tramite della volontaria osservanza del provvedimento da parte del suo destinatario. Conforta questa valutazione nel caso di specie la circostanza che il provvedimento reclamato è destinato ad Amministrazioni pubbliche, tenute ad agire nel rispetto del principio di legalità, ancorché oggi incerte sull’esistenza e contenuto del diritto fatto valere ex adverso.

  1. Le considerazioni delle Amministrazioni reclamanti non appaiono al Collegio idonee a scalfire il ragionamento del primo giudice, né a consentire una diversa ricostruzione del quadro normativo, che neghi al genitore dell’alunno iscritto al tempo pieno (si tratta di scuola primaria) la facoltà di scegliere, per il proprio figlio, tra il servizio di refezione offerto dal Comune e la consumazione a scuola, durante l’orario del pranzo, di un pasto preparato a casa: evidentemente sotto la propria responsabilità.

3.1. Il diritto allo studio è riconosciuto dall’art. 34 Cost., che lo declina, in primo luogo, attraverso la previsione di obbligatorietà e gratuità dell’istruzione inferiore per almeno 8 anni. La gratuità dell’istruzione è un principio assoluto e in alcun modo relazionato al reddito dei soggetti che devono fruirne. E’ quindi evidente che subordinare il diritto allo studio all’adesione a servizi a pagamento viola il dettato costituzionale.

3.2. L’ordinamento scolastico vigente consente a ciascun istituto di articolare il proprio piano di offerta formativa, fissando un orario scolastico settimanale a 24, 27, 30 o 40 ore (cfr. art. 1 del d.l. 7.9.2007 n. 147 conv. in legge 25.10.2007 n. 176; art. 4 D.P.R. 20.3.2009 n. 89).

Le 40 ore settimanali sono definite “tempo pieno”, implicano l’affidamento dell’alunno all’istituzione scolastica per una durata di otto ore per cinque giorni – in genere da prima mattina fino a metà pomeriggio (entrata 8,30 – uscita 16,30) – e comprendono esse sole “il tempo dedicato alla mensa” (d.l. 147/2007), che costituisce dunque parte dell’orario scolastico. Per agevolare le famiglie degli studenti che frequentano “a tempo pieno”, i Comuni, proprietari degli edifici scolastici, mettono a disposizione un servizio di refezione, appaltandolo a ditte private. Questo servizio pubblico è tuttavia a pagamento e riveste carattere non obbligatorio, ma facoltativo “a domanda individuale”, come riconoscono le stesse Amministrazioni resistenti (cfr. D.M. Interno 31.12.1983).

Sostengono le Amministrazioni reclamanti che i genitori che non vogliono avvalersi del servizio di mensa possono: 1) scegliere una formula diversa dal “tempo pieno”; 2) prelevare il figlio da scuola all’ora di pranzo, fargli consumare il pasto altrove e riaccompagnarlo per la ripresa pomeridiana delle lezioni, il tutto dietro autorizzazione all’uscita ed entrata fuori orario.

La prima interpretazione non ha un solido fondamento normativo ed entra in larvato conflitto con gli artt. 3 e 34 Cost. La legge, segnatamente l’art. 1 del d.l. 147/2007, comprende nell’orario scolastico di 40 ore “il tempo dedicato alla mensa”, ma non subordina l’iscrizione al tempo pieno all’adesione al servizio di refezione.

Né potrebbe essere altrimenti. Subordinare, di diritto o in via di fatto, l’iscrizione alle 40 ore soltanto a coloro che aderiscano al servizio di mensa e siano disponibili a sostenerne l’onere economico implicherebbe che un servizio facoltativo a pagamento diventi condizione per accedere a un’istruzione pubblica garantita dalla Costituzione come gratuita, oltreché obbligatoria. È quindi evidente che l’accesso al “tempo pieno” non deve portare alle famiglie maggiori oneri economici rispetto al “tempo definito” che non abbiano carattere di volontarietà. Ossia che il servizio di refezione deve restare un’agevolazione alle famiglie, “facoltativa a domanda individuale”, senza potersi larvatamente imporre come condicio sine qua non per la scelta del “tempo pieno”.

Può aggiungersi che la libertà di scelta del genitore (tra “tempo pieno” e “tempo definito”) non è affatto incondizionata, dipendendo sia dall’offerta formativa dell’istituto, dal numero di classi e di posti per classe disponibili, in rapporto alla domanda dell’utenza, sia, ancor più spesso, da dinamiche familiari che non consentono – normalmente per ragioni lavorative – ai genitori o ad altre persone di famiglia di farsi carico del figlio all’ora di pranzo, tanto meno di prelevarlo quotidianamente da scuola e riportarvelo dopo pranzo, e che pertanto inducono ad affidarlo all’istituzione scolastica fino a metà pomeriggio.

La seconda interpretazione, oltre a trascurare le dinamiche familiari anzidette, sottese alla previsione normativa dell’affidamento dell’alunno a “tempo pieno”, implica che lo studente venga a perdere la parte del “tempo scolastico” destinato al pranzo comune e alle attività (di socializzazione, distensive e ricreative) che ad esso si accompagnano.

Al riguardo, come già ha rilevato l’ordinanza reclamata, citando gli artt. 5 e 9 del D. lgs. 19.2.2004 n. 59 e la Circolare del Ministero dell’Istruzione 5.3.2004, la funzione educativa della scuola non può ridursi alla sola trasmissione del sapere, ma coinvolge il rispetto dei principi di convivenza civile e l’educazione al rapporto con gli altri.

Questa funzione educativa s’esplica anche nel tempo riservato alla mensa – momento di condivisione, socializzazione, confronto degli alunni con i limiti e le regole che derivano dal rispetto degli altri e della civile convivenza – per le considerazioni esposte nell’ordinanza reclamata (sub § 2), sostanzialmente condivise dal Collegio e non specificamente contestate dalle reclamanti (vedi anzi sulla funzione educativa della mensa la comparsa pag. 8 avanti al primo giudice).

Evidente dunque che l’ora di pranzo non ha la stessa rilevanza di un’ora di italiano o di matematica. Queste sono imprescindibili e previste in ogni piano formativo. Il tempo della mensa e del dopomensa entra solo nella formula delle 40 ore, che implica l’affidamento dell’alunno alla scuola in via continuativa fino a metà pomeriggio. Pur tuttavia, anche questa parte della giornata viene piegata dall’istituzione scolastica a svolgere una funzione educativa e trattata come parte dell’offerta formativa.

3.3. Su queste premesse, ferma restando la possibilità di uscire accompagnato all’ora di pranzo e rientrare per la ripresa pomeridiana delle lezioni, il diritto dell’alunno a “tempo pieno” di partecipare al “tempo mensa e dopo mensa” a scuola non può essere negato, né subordinato all’adesione a un servizio a pagamento, come quello di refezione.

Segue, per esclusione, che l’unica alternativa ragionevolmente praticabile, rispettosa sia dell’art. 34 Cost., sia dei dati emergenti dalle fonti di legge e ministeriali, consiste nel consentire agli alunni del “tempo pieno” che non aderiscono al servizio di refezione comunale di consumare a scuola un pasto domestico, ossia preparato a casa.

3.4. Per quanto concerne i timori manifestati dalle Amministrazioni in merito all’arretramento delle garanzie igienico-sanitarie, il Collegio conviene che il riconoscimento del diritto al consumo a scuola del pasto domestico non può comportare sacrificio o arretramento di interessi pubblici di pari dignità: in particolare dell’interesse a mantenere invariato lo standard igienico-sanitario, a tutela di tutti gli utenti, anche di coloro che continueranno ad avvalersi del servizio di mensa e, in funzione di ciò, a non deflettere sull’osservanza da parte dell’appaltatore degli standard HAACP previsti dal regolamento UE n. 852/04 e richiamati dall’art. 34 del capitolato di appalto (doc. 4 res.) e sull’esistenza di idonea ed effettiva copertura assicurativa nel caso che abbia a verificarsi un danno a terzi riconducibile alla gestione del servizio di mensa.

Queste considerazioni non implicano peraltro la negazione del diritto dell’alunno a consumare a scuola un pasto domestico, anziché avvalersi del servizio di refezione. Primo, come già ha ritenuto l’ordinanza reclamata, sia i capitolati d’appalto sia le polizze assicurative stipulate dalle ditte appaltatrici non hanno valore di fonte normativa e sono, rispetto al ricorrente, una res inter alios acta, incapaci dunque di pregiudicare una facoltà che deve intendersi riconosciuta dalle fonti normative sopra indicate.

Secondo. L’utilizzo dello stesso refettorio, se questa è la scelta organizzativa dell’istituto scolastico, da parte di utenti diversi – quelli che utilizzano il servizio di refezione, quelli che consumano il pasto domestico – può rendere opportuno stabilire regole di coesistenza: regole che hanno anche, e soprattutto, la funzione di mantenere chiarezza sull’ambito entro cui la ditta appaltatrice del servizio può essere chiamata a rispondere per il cibo somministrato in mensa.

Che ciò porti alla divisione in due ali del refettorio o all’avvicendamento di gruppi di utenti o ad altra soluzione ancora, si tratta comunque, e in ogni caso, di coesistenza e non di reciproca esclusione. Ai fini che ne occupano, il diritto di parte ricorrente al consumo di pasti domestici a scuola nell’intervallo del pranzo esce confermato, ferma la discrezionalità amministrativa nell’organizzazione delle modalità necessarie a consentirne il consumo.

Resta peraltro fermo, come già ha scritto l’ordinanza reclamata (§ 4.2.) che “le modalità attraverso cui l’istituto scolastico darà attuazione concreta al diritto qui riconosciuto non possono essere tali da snaturare o annullare di fatto i contenuti del diritto fondamentale alla istruzione, che costituisce il presupposto e la ragion d’essere del diritto (al pasto domestico) che qui si riconosce”. E va dunque ricordato che il “tempo mensa e dopo mensa” è parte dell’offerta formativa ed è un momento di sviluppo della personalità, valorizzazione delle capacità relazionali, educazione ai principi della civile convivenza. Valori formativi che devono essere preservati, per quanto possibile, dall’istituzione scolastica, pena la negazione del diritto che è stato qui accertato.

3.5. Un’ultima considerazione merita la questione igienico-sanitaria: nell’ottica, questa volta, della salute dello studente che sceglie di non avvalersi del servizio di refezione offerto e consuma il pasto domestico a scuola. Il ricorrente ha prodotto nella prima fase del giudizio una comunicazione resa dall’ASL TO 1 con la quale si certificava che “nessuna normativa vigente vieta il consumo di alimenti all’interno dei refettori scolastici diversi da quelli ivi somministrati” (doc. 1 ric.) e all’udienza u.s. la determina di un istituto scolastico torinese che detta, in attesa di nuovi più precisi comunicati, una serie di raccomandazioni ai genitori che scelgono di non avvalersi del servizio di refezione in merito alla scelta dei cibi da portare a scuola e alle cautele da adottare.

Le Amministrazioni reclamanti hanno prodotto, per parte loro, un parere igienico-sanitario della ASL n. 5 del 14.2.2001 (doc. 3 res.) in merito a conservazione e riscaldamento delle vivande portate da casa.

Il punto non può avere carattere risolutivo ai limitati fini del presente giudizio. Che per ragioni organizzative, ad es. indisponibilità di dispositivi scaldavivande o refrigeranti, alcuni cibi non possano essere consumati a scuola non esclude il diritto dell’alunno al consumo di un pasto domestico nell’intervallo del pranzo. Né tale diritto può risultare inficiato dalle norme regolamentari europee in tema di “igiene dei prodotti alimentari” (oggi Reg. UE 29.4.2004 n. 852) visto che tale disciplina deve “applicarsi solo alle imprese, concetto che implica una certa continuità delle attività e un certo grado di organizzazione” e non dunque ai privati (considerando n. 9), né si applica “alla preparazione, alla manipolazione e alla conservazione domestica di alimenti destinati al consumo domestico privato” (art. 1.2).

  1. Il ritardo nella tutela del diritto è evidentemente irreparabile. Come già rilevato nell’ordinanza impugnata, l’Amministrazione, pur preparandosi a concedere a chi è stato parte del giudizio avanti alla Corte d’appello la facoltà di scegliere il consumo del pasto domestico, nega questa stessa possibilità a coloro che siano rimasti estranei alla lite. Evidente dunque la necessità di agire in giudizio in via di urgenza per rientrare, fin d’ora, nel novero degli aventi diritto.

La strada ordinaria appare non percorribile, comunque non altrettanto efficace. Si tratta di diritti strettamente inerenti a un rapporto di utenza (scuola primaria), fisiologicamente destinato a cessare per effetto della progressione nel corso di studi. Considerando la durata media dei giudizi, riesce evidente che, per almeno due anni di scuola primaria e forse più, all’alunno (recte al suo genitore) potrebbe riuscire precluso l’esercizio di tale scelta. In casi estremi (alunni del quarto, quinto anno), potrebbe perfino negarsi che all’esito della causa ordinaria persista un interesse ad agire, in ragione del passaggio a un corso di studi superiore, che non contempla più il “tempo pieno”.

Le Amministrazioni tendono a minimizzare la gravità del danno, riducendo la questione in termini puramente economici, di reazione al “caro mensa”. La difesa è infondata. Secondo uno stabile condiviso indirizzo giurisprudenziale, ricorre l’estremo della gravità e irreparabilità del danno ai fini del ricorso alla tutela d’urgenza, se i diritti hanno contenuto non patrimoniale o assolvono comunque a bisogni primari della persona.

Nella specie, anche a presumere che l’azione giudiziale dell’odierno ricorrente, come degli altri, costituisca una reazione al cattivo rapporto prezzo/qualità del servizio di refezione offerto dal Comune, l’istruzione obbligatoria attiene incontrovertibilmente alla sfera dei bisogni primari dell’individuo. La compromissione della facoltà di scelta, tra “tempo pieno” e “tempo definito”, tra utilizzo del servizio di refezione, consumazione del pasto domestico a scuola anziché a casa ecc., riveste quindi il richiesto carattere di gravità e irreparabilità per dare luogo alla tutela d’urgenza.

  1. L’Avvocatura dello Stato contesta la mancata compensazione delle spese da parte dell’ordinanza reclamata. Non è fondata. Sotto il profilo della soccombenza, l’istanza cautelare ha avuto ampio accoglimento, salvo soltanto il punto delle modalità di esercizio del diritto. Un accoglimento parziale non equivale tuttavia a soccombenza, per stabile giurisprudenza, da cui non v’è motivo di discostarsi.

Le spese del reclamo seguono la soccombenza e sono liquidate avuto riguardo al valore di lite dichiarato ai fini del pagamento del contributo unificato.

Non ricorrono le condizioni per la dedotta condanna delle reclamanti per temerarietà della lite.

PQM

Rigetta il reclamo e condanna le reclamanti in solido a rifondere al reclamato la somma di € 850,00 per onorari, oltre rimborso spese generali, CPA come per legge e IVA se indetraibile.

Si comunichi.

Così deciso in Torino, nella camera di consiglio del 9 settembre 2016

Il Presidente

(dott. Umberto Scotti)